PAROLE DEL COMMIATO |
Fabio Mauri è morto nella notte di martedì 19 maggio di quet’anno 2009. Vogliamo ricordare la reciproca lunga amicizia.
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nomade n. 3 dicembre 2009
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LE LEGGI DELL'OSPITALITA'
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LA SUPERFICIE COME OSPITE, OVVERO LO SCHERMO
43.0 - Se le opere di pittura indicate in 40.0 si dispongono variamente attorno al punto limite della "mera superficie" per rendercela visibile sotto le specie di "ospite" o di "supporto", resta ancora da dimostrare che quanto detto in precedenza sullo "schermo" abbia trovato realiter una sua specifica forma pittorica, tale che tutto questo ragionare non cada fuori dalle concrete pratiche artistiche? Allora diciamo subito che è merito di alcune opere di Fabio Mauri averci infine offerto la possibilità di rendere tangibile la categoria dello "schermo" in pittura; ed anche - a riprova dei passaggi bronzei previsti da questo specifico cammino - di avere svolto poi, del tutto conseguentemente, le prove ulteriori che lo "schermo" si riserva e implica. Solo giunti a questo punto possiamo dare a Fabio quello che è di Fabio e allo schermo quello che è dello "schermo", raccogliendo diversi appunti scritti attorno al 1972. 43 - Quando ciò che lo schermo rinvia all’occhio è indovinato come puramente casuale, si introduce un dato che prende a far vacillare ogni certezza che non sia lo schermo stesso, e con ciò lo si fonda come unica realtà oggettiva, immutabile, nel tempo essendo sempre uguale a sé stesso. Posta l'antinomia, la negazione di un termine non può che confermare l'altro. 44 - Data l'immagine filmica e lo schermo, l'esplorazione combinatoria delle loro possibilità casuali non può che giungere presto all'unico altro caso che rimane: quando lo schermo si sottrae al flusso numinoso delle immagini e lascia che il fascio luminoso sospinga l'immagine verso l'infinito e la consunzione.Questo sottrarsi sancisce un divorzio che si è reso possibile soltanto se fin dall'inizio schermo e immagine sono due entità autonome. Solo quando il divorzio si fa definitivo lo schermo inizia a giocare un proprio ruolo esclusivo, pur senza ostentare la sua preminenza; e i nuovi incontri con le immagini cadranno sotto le leggi ostili dell'ospitalità (rimane da chiedersi cosa fa l'immagine luminosa quando non incontra lo schermo?). 45 - La rappresentabilità della fantasmagoria vorticosa delle immagini si rende possibile solo per mezzo di un candido schermo, che nella immacolatezza del suo porsi tutte le immagini inferisce e provoca [non certo come nel futurismo, che prende sul serio l'illusione di rappresentare appena, con una convenzione grafica, la dinamica della impressioni retiniche (cfr. Scoli su futurismo e impressionismo)]. 46 - Lo schermo sciolti i legami con l'apparecchiatura, non è più un piano di proiezione cinematografica. Ora il suo compito non è quello (che in un primo tempo lo aveva abbacinato) di rappresentare il fenomeno del cinema nelle sue determinazioni particolari e altamente accidentali, ma di porsi come categoria spaziale del pensiero fuori da ogni tempo, di imporsi quale condizione essenziale per attualizzare il pensato e il pensabile. E' un'opacità del tempo che solo può dare forma alla memoria, rivelarla ai sensi, sia pure nell’incapacità di prolungarne l'attimo, il momento involontario, decisivo a volte, se non tramite la riconversione cleptomane della fotografia che inverte il movimento dissolutore, l'andamento inarrestabile del flusso dei segni.Lo schermo liberato è la base materiale sulla quale l'immagine e la luce trovano finalmente il proprio posto di riposo. 47 - Andandosene liberamente tra gli uomini, lo schermo è una provocazione in atto (cioè, reclama ogni risposta) ed è un atto di provocazione (cioè, rifiuta ogni risposta). Egli è categorico nella sua estrema illimitata disponibilità e indisponibilità. È talmente sottile che ha escogitato un metodo sicuro per porsi al riparo e prevenire le indagini sul suo conto. Pone delle domande alle quali egli solo può rispondere; ma risponde con enigmi per sottrarsi così ad ogni inchiesta che sa perniciosa alla sua salute - offre gli enigmi per indaffarare gli uomini, mentre il suo pensiero intossica la stanza. Non scende a patti con altri segni. Ma paradossalmente (e forse neppure tanto) questo suo porsi contro i segni è la sua condizione per sottomettersi illimitatamente a tutti gli illimitati segni. La sua voglia nascosta (e tanto ha il pudore di mostrarla che a sé stesso persino la nasconde) è d'essere posseduto interamente e perpetuamente da tutti i segni e da tutti i capricci ideologici senza concedersi interamente a qualcuno.La sua ambizione, che lo divora, è la polisemia. Le sue prestazioni vanno sotto il segno della sregolatezza: egli non può possedere nessuna regola, è però dominato dalla legge dell'ospitalità - ma non la possiede: ne è posseduto (cfr. 35.e). O forse può possedere solo la regola dell'azzardo; la stessa del giocatore (per il quale non vi è regola rispondente, e per questo, sempre con rinnovato ardore, pretende farsene) per il quale ogni atto è sempre svincolato dai precedenti e dai futuri (un’esistenza vissuta sotto l’azzurdo del cielo).E se tutto questo sono i preliminari per la morte, lo sono pure per una esistenza liberata dall'esistenza, sottratta al caso e sottomessa alla necessità dell'istante [e l'istante sconfigge il caso, poiché non consente (concede) opzioni (sostituzioni), ma solo altri istanti che non lo riguardano già più].Lo schermo, invero, è anche una minaccia: è sempre pronto a rendere tangibile ai sensi il nostro pensiero - è la cattiva coscienza (di chi si sa corruttibile). Desiderando concedersi a tutti, lo schermo non può che privarsi di ogni prerogativa selettiva; non predilige nessuno e non condanna nessuno - neppure lui osa scagliare la prima pietra: geme di essere posseduto. Così la sua depravazione sostanziale rende necessaria la sua castità virginale - da qui la sua forma enigmatica. 48 - Sia lo schermo che l'ospite hanno un doppio senso. L'ospite è colui che accoglie (che riceve - concavo) ed è al tempo stesso colui che viene accolto (che si offre - convesso). L'ospite è lo straniero amico e l'amico ostile. Anche lo schermo designa tanto un piano di proiezione (che riceve - concavo) una realtà antistante, ma indica anche un piano opaco per una realtà retrostante, sottratta all'occhio (convessità scivolosa allo sguardo). È al tempo stesso un rivelatore e un offuscatore di immagini, un impedimento alla visione profonda.Così nelle loro medesime parole si esprimono le unità specchianti, gli antagonisti si conciliano mentre i concilianti si antagonizzano. 49 - Lo schermo è l'ospite, e l'ospite è il visitatore: è lo schermo. (La mera superficie come ospite, ossia lo schermo) L'ospite è sicuro della propria esistenza e consistenza: egli si sa. Ma sapendosi in quanto ospite si sa incernierato come la porta di Duchamp (che chiudendosi apre e aprendosi chiude) sul proprio asse di simmetria; egli si racchiude tutto lì, in questo luogo della consapevolezza che è una valvola cardiaca dell'andare e del venire, dei flussi palpitanti del suo segreto cuore. L'ospite è tale solo se il visitatore lo attualizza penetrando nella sua aura ospitale; altrimenti non è più tale, ma neppure il visitatore sarà visitatore, ossia: l'ospite non è più ospite se il visitatore non è più visitatore. (Reciprocità) Il celibe si fa pretendente si sé stesso. Sebbene analiticamente (nei ruoli) si presentano uno all'altro come due unità contrapposte e distinte (op-stili) la loro esistenza è complementare una all'altra, l'una dall'altra dipendente, l'una dall'altra e l'una nell'altra risolventesi e dissolventesi. Impassibile l'ospite deve subire il visitatore, se ospite vuol rimanere: e viceversa. Entrambi non possono evitare l'incontro verso cui si mobilita tutta la loro esistenza - sebbene il loro reciproco odio diviene di giorno in giorno tremendo e palese; la loro condanna è nella perenne riconciliazione: e questo li ammorba.Lo schermo come ospite, è disposto a tutto e invoca l'incontro senz'altro e comunque, pena: la sparizione.Allora non è un campo potenziale ma attuazionale di tutte le voglie; è il pervertimento del pensiero - è la zona di pervertimento del pensieroe dell'abiezione.È un vuoto infettato; portatore sano d'ogni immagine; auto-immunizzato contro le sue stesse seduzioni: perciò più infido.Come un bordello estremamente sguarnito è però sempre pronto a ospitare tutti quelli che casualmente e causalmente passano nel vicolo. Insomma: è il deserto tebaidico di sant'Antonio. 50 - Lo schermo, oramai ospite incontinente, si rifiuta, per costituzione o istituzione, di trattenere più a lungo il visitatore oltre l'attimo fuggente dell'incontro; ossia: oltre l'attimo in cui si è incontrato con sé stesso, rivelato a sé stesso come ospite e visitatore. Il suo desiderio di assolutezza lo condanna all'estrema solitudine dello scialacquatore che consuma sé stesso in questi lampi accecanti.Amministra la propria abbacinante nudità con l'oculatezza dei parsimoniosi e prende a vivere interamente la sua condizione (convinzione?) di insostituibilità in tutte vicende che le contingenze gli intrecciano attorno: da loro, lui, finalmente libero. Nella sua originaria passività lo schermo ha con insistenza e silenziosamente perseguito un proprio intimo progetto di redenzione; il "The End" è già proponimento di mai più concedersi e premonizione sicura al raggiungimento della libertà (quando la pellicola è tutta trascorsa, interamente avvolta nella compatta spirale della durata). L’altra via per emanciparsi è scivolare repentinamente via dal flusso luminoso di immagini per rinnegarsi come ospite. Ma la verginità così conquistata, è provocazione continua. Il suo bianco vestito attira irresistibilmente, come una finestra illuminata nella notte, miriadi di falene accecate e impudiche che vi si precipitano per schiacciarsi sul vetro e morire in quella trappola mortale. Il suo candore si svela come la forma più sottile del peccato reso enorme dal mascheramento dell'immacolatezza. Questo candore esposto a tutti geme di concedersi.Non è un segno perché li è tutti; oppure è il segno di tutti i segni possibili, il loro centro di gravità, l'occhio del tifone e il cuore vuoto del polifemo. Il che equivale a dire che è l'ultimo segno o li precede; che intanto è il loro fondamento materiale in quanto, pur essendo materiato, è negazione d'ogni determinata loro materialità.Non ha un'ideologia perché le ha tutte. La quale è pur sempre un'ideologia, ma la più laida. 51 - La pittura come schermo (o viceversa, lo schermo come pittura) non è il risultato di una rinuncia (di una sospensione o di una interruzione dei rituali) ma precisamente il contrario: è proprio la soluzione pittorica dell’incapacità di rinunciare ad alcunché; è la forma di un eccesso, di una dismisura, la voracità di rappresentare immediatamente il mondo intero nella sua propria voracità di rappresentazione; è il vuoto bulimico del ventre del mondo. 52 - La pittura, adesso, può anche accadere: però non è detto.Come ogni diritto non si porta appresso l'oggetto cui dà diritto, così il diritto dello schermo all'immagine non si porta senz’altro appresso l'immagine. Dunque lo schermo, proclamando il proprio diritto all'immagine ne confessa la mancanza; ma per continuare ad averne diritto deve restarne perennemente sguarnito d’ogni immagine. È così che lo schermo è l’incarnazione stessa del suo diritto all’immagine. La mera superficie rimane l'opera irriducibile; essa è l'opera e il prius; non più rappresentazione del mondo, è il mondo della possibilità stessa di rappresentarlo. Le condizioni affinché tutto questo si manifestasse palesemente e si rendesse possibile anche materialmente, potevano essere offerte alla pittura solo in una fase storica nella quale in generale anche i rapporti tra gli uomini e le cose si staccano dagli oggetti per oggettivarsi (ma quando i rapporti si oggettivizzano, gli oggetti si rapportizzano: i rapporti tra gli uomini diventano rapporti tra le cose – ma dobbiamo adesso dire: tra le merci). |
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NOTE IN MARGINE AD ALCUNE (provvisorie) ICONOLOGIE DI FINE MILLENNIO
L’opus artistico di Mauri si fonda sulla sostanza di una vera e propria summa poetica, ma sarebbe meglio dire drammaturgica, con una continua scadenza di verifica, senza esclusione di conferme e rimesse a fuoco successive. Ci si avvale, così, degli elementi di una smentita filologica interpretativa, ancora tutta da riproporre, appartenente ad una più amplificata articolazione per generi prescritti, con una attenta e puntuale regia, circostanziata ed esemplificativa, della prassi estetica, filmica e performativa; nel senso, almeno, che questi termini stanno ad indicare nella loro formulazione connotativa e funzionale, prima che diventino categorie allusive all’interno del sistema di conduzione dell’immagine, suffragando l’egemonica esibizione di canonizzate, eterodosse comunque, tipologie espressive.Se è vero che quello che interessa, e qui è il fulcro portante della diagnosi cognitiva di Mauri, indubbiamente come dato preliminare da dimostrare – sia pure per approssimazione e per difetto – è la rivelazione del concetto, sempre più perfettibile di “rappresentazione” e la conseguente, contigua e connessa ossessione dell’immagine, disattivendo il suo filtro omologativo, abilitato ad aggiungere e a restituire, per sostituzionem semplicem, immagine all’immagine, fin aulla soglia introiettiva del suo esaurimento iconologico. La nota asserzione kafkiana, peraltro, in cui si esprime una sarcastica riserva sulle effettive capacità di istituire un rapporto osmotico e partecipe con l’osservatore nella spettacolarizzazione filmica (“io vivo con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare”), investe attualmente tutta la sfera dell’arte e l’interezza fenomenologica dei supporti indiziari e assetti delegati alla propria designazione ubicativa, continuando a riciclarsi e sopravvivere indenni laddove, all’atto della loro decadenza periodica non vengano accantonati e destituiti, mancando correttivi di debita e assegnata coesistenza – allo scopo redatti – di consumo subliminare. Pertanto, all’acme della debordiana “società dello spettacolo”, è lo spettacolo che spettacolarizza sé stesso, avendone gli strumenti autonomi di sviluppo e l’autorizzazione – la nostra – a procedere, come è l’oggetto a oggettivare sé stesso e il mondo, governato da una lassista a-nomia. Compete al soggetto, che non s’illude più di aspettare Godot, lo scantonamento della propria discutibile identità, ormai irreversibilmente in prestito, puro osteggio testimoniale offerto in pasto alla rtualità interrotta di un indelebile – ma presunto, fino a prova contraria – “transfert” a ritroso, comunque delocativo. L’unica chance, a questo punto, è agire su vari livelli di guardia e di confine, ai bordi estremi dei vasi comunicanti (divenuti occlusi per la ridondanza amorfa e monocorde dei significati immessi) del circuito artistico, prima e dopo la trappola adescata delle relative allocuzioni e denominazioni, dei sinonimi e neologismi correnti e d’obbligo. Proprio con Mauri, invece, il mezzo filmico assume il ruolo specifico di una dilatazione alternativa - non meramente retinica – dello spazio e del tempo. Oggetto medesimo d’azione e d’impiego questa volta alla stessa stregua, indifferentemente, del reperto “trouvè”, corruttibile oppure smagliate nella singolarità unica della sorpresa e della ri-scoperta (ma non si sapeva forse che l’”invenzione” altro non significa che reperire, letteralmente e di fatto, quello che, precedentemente, sicuramente e paradossalmente, è già stato?), perseguita con quella che Sören Kierkegaärd, profeticamente, già chiamava, dunque, l’”angoscia della ripetizione”. La sua logica non procede per salti, ma per scarti e pause, per aritmie sincopate e disarmonie tichiche interagenti su piani e fonti inconciliabili, interdetti allo scadimento temporaneo della iterazione dei giudizi di scelta, limati e tarati su misura… Un caso emblematico, in questo senso, è costituito dalla performance dal titolo “Intellettuale”, del 1975, in cui sul torace di Pier Paolo Pasolini, seduto su una sedia, viene proiettato il suo film “Il vangelo secondo Matteo”. Venti giorni dopo l’azione viene ripetuta in un’altra sede; ma nel frattempo il poeta muore tragicamente, e il film viene ugualmente proiettato sulla sua camicia. Questo significa, se occorresse illustrare, che l’immagine e la realtà si inseguono alla ricerca di una soluzione più (“autentica e” cancellato) definitiva, pena la scomparsa della pura (“e ingombrante”, cancellato) corporeità fisica. I trucchi dell’arte, come quelli dell’anima, sono infiniti. Si sfronda l’atto mancato del garantismo estetico e del suo consumo ad oltranza, rimandandolo al complesso gioco rivendicativo delle finzioni, e si sancisce il problematico iato tra téchne ed episteme, dissociazione latente e probativa tra significanti inerziali e significati indotti, separazione ossimora tra langue e parole, corrispondente alla struttura così decrittata, di una ulteriore, se non ultimativa, codificazione linguistica. Ma l’immagine, si sa, è contrario dell’immaginario, e il suo postulato è l’immaginazione; questa necessita di una tecnica, e la sua ideologia ne è, per quanto si dissimuli, una specie. Anche perché nulla c’è di più “reale”, contrariamente ad un pregiudizio diffuso, proprio dell'immaginazione, organo predisposto alla formazione di inediti modelli di comportamento suppletivo e moltiplicativo, braccio diacronicamente e sincronicamente estensibile in modo pressoché illimitato a surclassarne il limite, allo cadere incontrollato e preventivo del suo utopico e dispotico statu quo. L’insieme azzerante, in mobilitazione progressiva dei linguaggi prescelti, quando prossimi ad una futuribile estinzione, decatalogati integri previa consultazione dell’unità discriminante del valore ad ogni costo aggiunto, che acquista credito nominale al momento in cui perde consistenza reale, tende effettivamente a suggerire ed imporre una tecnica operativa d’immagine comunque complementare e paritetica, ma non assimilabile o equipollente, stocasticamente non ascrivibile al dettato sovraesposto della valenza ideologica. Dopo la destabilizzazione precaria di un nucleo di riferimenti certi, cui confidare l’insorgenza a rischio di attardati contenuti soteriologici ai gabellieri delle coscienze di turno, non ci sono più tempi supplementari idonei ad ospitare rassicuranti brevetti di etimo o di stile nella terra di nessuno dell’hic et nunc, anch’esso in via inappellabile di rimozione. L’ideologia è, quindi, se ancora non fosse chiaro (a dispetto dei cultori recidivi targati “falce e pennello”), il materiale su cui si opera, manipolando o modificandolo, il flusso pulsionale, (incomp.), polisenso, apparentemente ininfluente del linguaggio, in vista di quel suo deliberato risultato appropriativo di una mai cessata attitudine critica che si sostituisce ed aggiunge al puro atto – e alla determinazione risolutiva – del fare artistico. Un simile e onnicomprensivo – starei per dire frontistico – progetto critico, che sta alla base dell’analisi affabulativa ed espressiva di Mauri, ha in ogni caso a che fare, in piena e lucida consapevolezza, con quella che viene definita “rimozione”: rimozione dall’incubo ingombrante del cattivo odore della storia e dal pettegolezzo gratificante della cronaca, variabili terminali ubicui, in prova perenne e attesa coatta di cambio – e scambio – di destinazioni d’uso. La congerie alimentata, sedimentata o comulativa dei segni preposta alla distribuzione informe dei messaggi, ad onta della sua scompensata istantaneità di lettura, fa sì che proprio il linguaggio è l’incognita, lo sconosciuto, l’altro, l’anello mancante che lo collega finalmente all’ideologia, intesa come dichiaratamente proditoria maschera della realtà. Lo spostamento che consegue, infine, alla sua convenzionale superstizione sociale, è quello indifferenziato del punto di partenza, situato nelle zone d’ombra di metaforiche e prensili trasposizioni, di rafferme camere oscure in cui il batticuore del desiderio renda pari il conto con il - brutto, disarmante e indimenticabile – sogno ad occhi aperti della storia. (Tullio Catalano) - Testo inedito inviato per fax a Fabio in una data imprecisata. |
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53 - Non è qui il caso di esaminare quale potrebbe essere il paradigma sociale interiorizzato che è alla base della "mera superficie" e dello schermo come ospite nella sfera della produzione pittorica attuale.
È invece da aggiungere che lo schermo, emancipato da una sudditanza che lo voleva ospite per forza, è andato emancipando termini ormai non più interdipendenti della macchina da proiezione o apparecchiatura, del fascio luminoso, del film (memoria e tesoro d'immagini, conchiuso universo linguistico di cui la fine è nota, o sicura) che diventano di fatto i protagonisti di altre vicende della medesima storia. 54 – La singola evoluzione di ognuno di questi elementi (l’apparecchiatura, il fascio luminoso e il film) rendono probante quanto fin qui detto. Ossia: le loro successive vicende sono organicamente conseguenti e tirano dentro Fabio Mauri. E i fatti successivi disvelano e provano, sopra ogni legittimo dubbio, che gli schermi di Mauri avevano fin dall’inizio una vocazione ospitale, di contro all'altra vocazione della "mera superficie" di essere un supporto o tornare ad essere un motivo. A conclusione di questa parte, possiamo anche dire che “gli schermi” di Fabio sono i prototipi incarnati e sviluppati della vocazione stessa all'ospitalità della "mera superficie", nella quale si risolve una linea della pittura contemporanea. (Lillo Romeo) - Da La mera superficie in pittura Sezione VII (1972-1975). |
Foto in alto: Fabio Mauri come Pelia, zio di Giasone, nel film "Medea" di Pasolini (luglio-agosto 1969) - Foto sopra: (da destra) Cilla Musatti, Luciano Trina, Carmelo Romeo e Fabio Mauri con in mano alcune fotografie degli schermi in legno e stoffa che stava realizzando in quell’anno 1970.
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